Recentemente ho sentito dire, da una donna che stimo molto, un concetto che mi torna in mente molto spesso: tutte le paure (di qualsiasi tipo e intensità, dalla più comune alla più particolare) hanno una radice comune, ovvero la paura di morire.
C’è chi ha paura dei ladri in casa, chi delle punture delle vespe. Qualcuno teme la solitudine.
Chi ha paura dei ladri teme che qualcuno gli faccia del male e quindi che possa morire.
Chi ha paura delle punture delle vespe di solito ne è allergico, quindi in realtà ha paura dello shock anafilattico e quindi di essere in pericolo di vita.
Chi ha paura della solitudine teme di restare solo e di conseguenza di non riuscire a sopravvivere badando a sé senza l’aiuto e il sostegno di qualcun altro.
Questo ragionamento mi fa pensare a quanto ci somigliamo l’un l’altro. Il problema è che la cosa che più ci avvicina agli altri esseri umani è anche quella che ci fa più soffrire, della quale non amiamo parlare e quindi, paradossalmente, anche quella che ci allontana dagli altri.
Non riusciamo ad essere compassionevoli ed empatici perché quando chi abbiamo di fronte ci racconta quali sono le sue paure, inevitabilmente pensiamo alle nostre. L’altruismo d’altronde è un gesto egoico.
Dovrebbe essere nostro dovere quindi, in quanto facenti parte di gruppi sociali, imparare a coltivare la compassione. Solo così riusciamo a trasformare l’odio in perdono. Nel momento in cui ci riconosciamo nell’altro e la cosa non ci piace, abbiamo l’abitudine di respingere, abbandonare, entrare in conflitto, giudicare.
Se invece provassimo a sospendere tutto questo nel momento in cui sentiamo quelle emozioni brusche e violente prendere il sopravvento e le sostituissimo con l’ascolto (di noi e degli altri), che cosa succederebbe?
Un’altra cosa che mi hanno fatto notare di recente e la cui immagine nitida è rimasta impressa nella mia mente è: quando giudichiamo qualcuno e puntiamo il dito, osserva la tua mano. Quante dita sono rivolte verso la persona che indichiamo e quante verso di noi? Il gesto è inequivocabile.
C’è un’altra cosa che spaventa molti di noi da quel che ho potuto osservare nella mia breve esperienza di ammiratrice del genere umano: essere sé stessi. È spaventoso, terrificante a volte, essere sé stessi. Trovo che sia anche questa derivante dalla paura di morire. Ma come?
Se è vero che quando nasciamo siamo puri, siamo incontaminati, siamo noi stessi… è vero anche che ci mettiamo davvero poco a modificarci in base alle esigenze dei nostri genitori e dell’ambiente circostante. Il motivo per cui lo facciamo è che percepiamo più o meno amore nei nostri confronti in base a come ci comportiamo.
Si tratta di una percezione appunto, non sto affermando che i genitori amino meno i figli nel momento in cui si comportano in un certo modo. Ma ciò che i figli provano in quei momenti e le reazioni che ricevono dall’esterno dà loro l’idea di un comportamento “giusto” o “sbagliato”. Succede poi che conosciamo altre persone al di fuori del nostro intimo nucleo famigliare. Iniziamo così ad adattarci anche agli altri: nonni, maestri, compagni di classe, allenatori, genitori degli altri, ecc… Ci rendiamo conto così che, in base a chi abbiamo davanti, possiamo dire o non dire qualcosa, comportarci in un modo o in un altro.
D’altronde, per ricevere amore a volte non basta provarne.
Piano piano il nostro sé rivolto al mondo esterno si modifica.
Arriva poi il periodo della pubertà durante il quale esplode rabbia, intolleranza, odio, rancore e sbalzi umorali. Io credo che tutta quella fase di ribellione al mondo sia spinta da un’incontenibile bisogno di tornare ad essere noi stessi. Siamo arrabbiati perché ci rendiamo conto che non ci stiamo rispettando. Nessuno ci capisce, nessuno ci ascolta. Non ci sentiamo capiti, non ci sentiamo ascoltati. Ci si sente confusi e non sappiamo più chi siamo.
E quindi inizia una disperata ricerca per ritrovarci: capelli blu, droghe leggere, vestiti improbabili, ribellione alle regole, bugie, musica ad alto volume, odio verso chi ti ha dato la vita, scoperta del piacere fisico, bisogno di solitudine, bisogno di moltitudine, abbandono di passioni infantili, omologazione.
Tutto questo condito da un cambiamento fisico in cui non ci si riconosce più (mi viene in mente una mia recente esperienza in una scuola media in cui una ragazzina di 11 anni mi ha esplicitamente chiesto: “Chiara ma tu lo sai se noi siamo bambini o ragazzi? Come ci definiresti?“).
Dopo questa fase di profondo cambiamento esteriore ed interiore iniziamo a chiederci chi siamo, iniziamo a stringere rapporti con gli altri che spesso si riveleranno duraturi, iniziamo a concretizzare chi vogliamo essere. Ma non chi siamo. L’autenticità dell’essere viene tradita da tutte le maschere che abbiamo indossato e che sembravano calzassero alla perfezione.
Ma cosa ci frena dall’essere autentici? Come è legata la paura della morte a quella dell’autenticità?
Beh, se tutte queste maschere ci hanno portato fino a qua, sopravvivendo a questa vita così difficile, toglierle potrebbe essere un rischio, un azzardo troppo grande. Ormai ci siamo abituati ad essere così. Senza le mie maschere mi sento nuda, vulnerabile, fragile. Senza le mie maschere gli altri non mi riconoscerebbero. Mi direbbero “tu non sei così” oppure “quando sei diventata così?“
Ci ritroviamo poi a fare scelte che non sono le nostre, prendere decisioni che giovano qualcun altro, iscriverci a scuole che non vorremmo frequentare, praticare sport perché siamo bravi a farlo e non perché ci rendono felici, cercarci un lavoro che sia in linea con ciò che abbiamo svogliatamente studiato, ecc…
Finché non ci si sveglia. La morte fa ancora paura però! Perché? Perché finché siamo vivi abbiamo molti motivi per averne.
Il risveglio di cui parlo è una presa di coscienza che c’è dell’altro, è la consapevolezza che ci mostra che abbiamo degli strati nascosti, è il momento in cui decidiamo di andare a sbirciare in questi vecchi strati. Ci svegliamo da un intorpidimento generale quindi consapevoli che sarà un percorso lungo, in cui piano piano ci si stiracchia, ci si alza, ci si incammina. Scuotiamo le braccia e le gambe, rilassiamo la mascella, ci concediamo un bel pianto e poi un bel sorriso, un urlo acuto, un abbraccio… un cambiamento. Il ritorno a sé.
(Finché non ci si sveglia anche la paura del cambiamento è molto popolare, che poi è la paura dell’ignoto e quindi del pericolo e dunque… lo sapete già).
Una volta svegli però il cambiamento è la trasformazione che sappiamo essere necessaria.
Se sentiamo dentro di noi di essere finalmente svegli allora sentiremo di essere sul nostro sentiero, quello che seppur difficile e tortuoso ti rende felice. Quante volte, in età adulta, facendo qualcosa che ti scalda il cuore, ti capita di pensare “sembro una sedicenne” oppure “questa cosa non la facevo da quando avevo diciotto anni” ritornando a un tempo in cui evidentemente si avevano un po’ meno maschere di ora. Percorrendo il sentiero del cuore caldo e luminoso ci renderemo conto che le maschere cadono una ad una, apparentemente perché non si tengono più su da sole. In realtà cadono perché non c’è più bisogno di esse. Le calpesti senza nemmeno rendertene conto, restituendole alla terra e lasciandotele alle spalle.
Ogni tanto si ha l’istinto di cedere, tornare indietro a prenderne una, raccoglierla, spolverarla e indossarla ancora un’ultima volta, cercando conforto in quella che era la nostra vecchia vita. Ma in pochissimo tempo ci si rende conto che non calza più alla perfezione come prima ed è per questo che è meglio continuare per la nostra strada… con la consapevolezza che finché sentiamo il cuore illuminarsi significa che non ci siamo persi.
L’immagine della persona che cammina sul suo sentiero e lascia cadere le maschere racconta molto bene il lavoro che fanno i fiori di Bach quando iniziamo ad assumerli. Non possiamo attribuire ai fiori tutto questo per il semplice fatto che se non vogliamo il cambiamento, esso non avverrà. Tutto parte da noi, sempre. I fiori di Bach sono degli accompagnatori. Danno sostegno quando ce n’è bisogno e rischiarano la mente quando è offuscata, diradano la nebbia, lasciano spazio alle nuove consapevolezze di emergere, di affiorare. Indicano la luce ma sta a noi decidere di seguirla.
Sono Chiara Checchi, consulente di fiori di Bach nella relazione Uomo-Animale.
Per iniziare un percorso con me puoi contattarmi all’indirizzo:
oppure puoi scrivermi un messaggio tramite Instagram al profilo: https://www.instagram.com/chiarachecchi_fioridibach
Grazie molto interessante! La cosa più difficile è conoscere se stessi…
E’ davvero il viaggio più difficile che ci sia!
Grazie a te Francesca. È vero è complicato anche perché siamo in continua evoluzione… ma chissà forse è proprio questa sua complessità che lo rende anche affascinante.